La Suprema Corte di Cassazione si è di recente pronunciata su un argomento di strettissima attualità: cosa accade ai debiti di natura tributaria contratti da un soggetto quando questi passa a “miglior vita”?

In altri termini, l’Agenzia delle entrate, o altri Enti impositori come ad esempio i Comuni, possono rivolgere la propria pretesa nei confronti di eventuali eredi, relativamente a passività di natura erariale maturate da un soggetto defunto?

Per trovare la risposta al quesito, prima di passare all’analisi della pronuncia della Suprema Corte , è opportuno chiarire il quadro normativo applicabile nel caso di specie.

Al riguardo infatti, l’art. 470 del Codice civile prevede espressamente che L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente o col beneficio di inventario. L’accettazione col beneficio di inventario può farsi nonostante qualunque divieto del testatore“.

L’accettazione è quello strumento con il quale l’erede di una persona defunta acquista formalmente l’eredità, divenendo così titolare dei beni e dei diritti che appartenevano al defunto; l’accettazione dell’eredità, come già anticipato, può avvenire in maniera espressa o tacita e può avvenire in maniera pura e semplice (ovverosia senza alcuna tipologia di riserva), oppure con beneficio di inventario. Tale ultima modalità comporta che l’erede non sarà chiamato a rispondere, con il proprio patrimonio personale, di eventuali debiti contratti dal defunto nel corso della propria vita.

Per tale ragione dunque, se il soggetto chiamato all’eredità opterà per l’acquisto con beneficio d’inventario, non si verificherà alcuna “fusione” fra il patrimonio del defunto e il patrimonio dell’erede: l’erede sarà pertanto tenuto a pagare i debiti del defunto soltanto entro i limiti dell’attivo della consistenza ereditaria, acquisita per effetto dell’eredità medesima.

E’ bene precisare, infine, che l’accettazione dell’eredità può anche avvenire tacitamente, così come previsto dall’art. 476 del c.c., circostanza che si configura in tutti quei casi in cui “il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare, e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede“.

Posta questa doverosa premessa, possiamo ora tornare al quesito principale: l’erede risponde dei debiti tributari contratti dal de cuius? Il tema, ampiamente dibattuto in giurisprudenza, è stato oggetto – come già anticipato – di una recente pronuncia della Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 19030 del 17 luglio 2018 ha ribadito il proprio orientamento sul punto, già maturato con la sentenza n. 2820 dell’11 febbraio 2005.

In particolare, a parere del Supremo Collegio “la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, perché a tale effetto è necessaria anche, da parte del chiamato, l’accettazione mediante aditio oppure per effetto di pro herede gestio, oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.

Per tale ragione, prosegue la Corte, l’assunzione della qualità di erede non può in alcun modo “desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella sua qualità di erede“.

In estrema sintesi: l’eredità potrà dispiegare appieno i propri effetti soltanto a seguito dell’avvenuta accettazione della stessa da parte dell’erede, nelle forme sopra indicate, e dunque, per l’effetto, l’Autorità fiscale potrà pretendere il pagamento dei debiti di natura tributaria, contratti dal de cuius, soltanto nei riguardi di coloro che abbiano manifestato la volontà di acquisire lo status di “erede”, con conseguente assunzione delle attività e delle passività componenti l’asse ereditario.

Tale principio appare di fondamentale importanza nel caso in cui il defunto abbia contratto debiti di natura tributaria, nel corso della sua esistenza, in quanto l’accettazione dell’eredità rappresenta una condizione imprescindibile e necessaria affinché l’Agenzia delle entrate, o altri Enti impositori, possano rivolgersi agli eredi per richiedere il “saldo del conto”: è questo, in sintesi, il principio statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8053 del 29 marzo 2017, secondo cui “in ipotesi di debiti del de cuius di natura tributaria … l’accettazione dell’eredità è una condizione imprescindibile affinché possa affermarsi l’obbligazione del chiamato all’eredità a risponderne. Non può ritenersi obbligato chi abbia rinunciato all’eredità, ai sensi dell’art. 519 cod. civ.

Naturalmente, lo Studio Legale Messina & Partners è a disposizione di chiunque abbia necessità di ulteriori chiarimenti o approfondimenti.